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CALCE VIVA E MESCOLAMENTO A CALDO.
È COSÍ CHE SI COSTRUIVA ROMA PIÚ DI 2000 ANNI FA

Qual’è il segreto della durabilità delle malte e dei calcestruzzi degli antichi romani?
Sarà forse l’uso della calce viva e del mescolamento a caldo? 

Ce lo spiega Andrea Bisciotti del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’ Università degli Studi di Ferrara, attraverso una disamina di recenti pubblicazioni scientifiche. Buona lettura.

Calce viva (CaO) e mescolamento a caldo: è così che si costruiva a Roma più di duemila anni fa.
Per comprendere questa affermazione, riprendiamo innanzitutto, in una manciata di righe, le conclusioni tratte da un lavoro di Marie D. Jackson et al.[1].

“Il segreto della durabilità delle malte romane a base di calce è insito nella progressiva e spontanea formazione, lungo un corso temporale molto ampio (anche centinaia di anni) e soprattutto se in contesti di interazione con l’ambiente marino, di una fitta rete di minerali secondari, quali prodotti nati dall’alterazione dei tufi e delle pomici impiegati come fonte pozzolanica (a condizioni di pH (<12) e T (circa 90°C) estreme) formati dalla reazione di questa con la portlandite libera.”

Queste fasi minerali, note in letteratura come C-A-S-H sono strutture non-cristalline, corrispettive di minerali presenti in natura con il nome di zeoliti (tra cui Al-Tobermorite, phillipsite, strätlingite). Queste fasi amorfe presenti nelle malte antiche sono “comparabili” con i minerali prodotti dall’idratazione del moderno cemento portland, da qui anche le simili proprietà idrauliche. Ci troviamo però, nel caso delle malte romane, davanti ad un prodotto tecnologico diverso che sfrutta, a suo vantaggio, l’interazione con l’ambiente esterno, acquisendo nel tempo una struttura via via più complessa e interconnessa (quindi resistente e tenace) con il progredire del processo di alterazione spontaneo.

Veniamo ora ad un più recente studio di Linda M. Seymour [2]. Se Marie D. Jackson ci ha fornito evidenze per quanto riguarda l’interazione tra calce e componente pozzolanica, Linda M. Seymour va in particolar modo ad investigare circa la presenza di grani residuali di calce viva (CaO) rinvenuti con dimensioni nell’ordine di qualche millimetro all’interno delle malte romane (con valori anche sopra il 5% in massa). Si noti che già G. Vola nel 2011 [3] aveva identificato la presenza di noduli di calce viva nelle malte storiche.

Grani di calce viva CaO (Lime Clast) rinvenuti all’interno di malte romane (a dx – immagine SEM – EDS, CaO in rosso).

Questi grani di calce viva rappresentano la più immediata fonte di CaO reattiva a disposizione delle fasi in silice SiO2 e allumina Al2O3 (provenienti dalla componente pozzolanica) che determina il procedere delle reazioni idrauliche e la formazione del gel amorfo C-A-S-H.

Ricordiamoci però che ogni reazione avviene sempre e solo in presenza di acqua, che produce la progressiva dissoluzione delle specie reattive e ne permette l’interazione graduale nel corso del tempo, su base delle reazioni di equilibrio chimico che ne regolano la dissoluzione. In questo caso specifico l’aggiunta di acqua porterebbe alla immediata formazione di portlandite (CaOH2) risultante dall’idratazione della calce viva (CaO), consumando questo reattivo che finirebbe immediatamente per non essere più disponibile.

L’acqua infiltrandosi tra le porosità della malta permetterebbe quindi lentamente alle tre specie principali di ossidi (CaO, SiO2 e Al2O3) di interagire portando alla graduale formazione dei prodotti idraulici.

Il grado di umidità presente influenza direttamente anche il processo che segue l’idratazione, ovvero la carbonatazione. Un processo che segna la fine del “ciclo di vita” dei leganti idraulici, quando cioè a contatto con l’aria si trasformano in carbonato di calcio CaCO3. Di carbonato di calcio, ne esistono diverse tipologie -o polimorfi cristallini- che in questo contesto specifico possono essere “letti e interpretati” andando a ritroso dagli studiosi come minerali indice per stimare il grado di umidità interna della malta durante le fasi di idratazione. Da questa indagine, applicando questa metodologia, è stato possibile stimare un basso grado di umidità (< del 20%) durante le fasi di idratazione da cui è quindi possibile ipotizzare che la temperatura della malta durante il mescolamento fosse volutamente stata portata a temperature elevate (sopra i 200°C). Mescolata quindi a caldo. Non sarebbe una scelta casuale, visto che questo passaggio, sappiamo, avrebbe permesso una presa (e quindi una reazione) molto più rapida, sopratutto in contesti di costruzioni in contesti difficili come quelli marini.

Ora la questione principale è “come fa la calce viva a non idratarsi formando portlandite durante la fase – obbligatoria – di mescolamento della malta con acqua?”.
La risposta data dagli autori è che probabilmente la calce viva è stata ottenuta o dall’overburning (quindi una cottura eccessiva) o dall’underburning (l’opposto) del carbonato di calcio, un prodotto reattivo ma con caratteristiche e proprietà  diverse dalla normale calce viva (CaO).

In questo scenario, la calce viva (da over o under-burning) si conserva in clasti solidi all’interno della malta e solamente in seguito, con l’interazione di acqua di ricircolo nelle porosità il processo di idratazione della calce viva avverrebbe (ma in questo contesto gradualmente nel tempo) liberando via via portlandite, quest’ultima entrerebbe quindi in soluzione poco alla volta (sempre regolata dagli equilibri chimici) portando alla formazione dei prodotti idraulici (CASH) e liberando lentamente -e costantemente- nel tempo (parliamo di anni, e secoli) il calore necessario (< 90°C) ed il pH (<12) utile a mantenere attivo il processo idraulico come descritto dal precedente lavoro di Marie D. Jackson.

Testo di Andrea Bisciotti – Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra – Università degli Studi di Ferrara, per gentile concessione.

Bibliografia citata

[1] Marie D. Jackson et al.,”Phillipsite and Al-tobermorite mineral cements produced through low-temperature water-rock reactions in Roman marine concrete”. Am. Min. 102 – 7 (2017) DOI :10.2138/am-2017-5993CCBY
[2] Linda M. Seymour et al., Hot mixing: Mechanistic insights into the durability of ancient Roman concrete. Sci. Adv. 9, eadd1602 (2023). DOI:10.1126/sciadv.add1602
[3] Vola G, et al. Chemical, mineralogical and petrographic characterization of Roman ancient hydraulic concretes cores from Santa Liberata, Italy, and Caesarea Palestinae. Israel. Period. Mineral. 2011;80(2):317–338.

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